RIVELAZIONI BAROCCHE 1999
Intervento alla giornata di studio “Architettura e Fotografia ” organizzata in occasione della presentazione del libro “Rivelazioni Barocche”.
Innanzi tutto un ringraziamento ai committenti, che hanno fatto una cosa molto rara, direi quasi da micro mecenatismo: quando siamo stati convocati, ci hanno lasciato espressamente la massima libertà: la richiesta era di dare la nostra personale interpretazione del Barocco, a ruota libera, senza limiti di sorta, l’unico limite ovviamente era il budget. Chiaro che conoscendoci bene e conoscendo il nostro lavoro potevano immaginare dove potevamo andare a parare.
Io sono architetto, come alcuni qui sanno, e quando la committenza mi chiede di fotografare delle strutture architettoniche si utilizzano le mie competenze di architetto e di fotografo che mi consentono di attingere ad un immenso serbatoio che è la tradizione visiva : questo comporta fornire modi tendenzialmente precostituiti di fotografare. Interessano generalmente immagini Pulite, come si suol dire: la chiarezza è molto apprezzata, così oltre a mettere in luce i pregi, occorre attenuare e mettere in secondo piano i difetti, e la mia formazione aiuta molto in questo senso: insomma fotografie che non diano problemi di fruizione.
Il grande filone alinariano non è mai abbandonato proprio perché tende ad arrivare ad un’illustrazione direi bidimensionale, e più tranquilla possibile, come ad aggiungere semplicemente una vestizione materica ad un disegno tecnico (i nostri libri di scuola ne sono strapieni) annullando il più possibile la personalità di chi effettua il lavoro. Infatti gli operatori sono intercambiabili: centinaia delle immagini richiestemi negli anni passati potrebbero essere state fatte da tantissimi altri fotografi, io stesso stento a riconoscerle. In questo caso invece sono stato spinto a non mantenere questo atteggiamento di direi sottile autocensura del professionista, ho quindi cercato di evidenziare attraverso questa avventura fotografica quello che questa architettura rappresenta per me.
A questo punto si impone un salto molto indietro nel tempo: un salto fino a quando ero un fantolino alto così, dai 3 ai 6 anni, l’età in cui ci sono i primi contatti con il culto ed i suoi edifici e l’età in cui un essere umano è come una lastra d’oro su cui si incidono le cose. Possono poi essere coperte da masse di detriti e cose varie, ma se si riesce a scavare, o se c’è un movimento tellurico, la lastra è sempre lì, splendente e leggibilissima.
Alcune persone mi hanno chiesto perché ho fotografato in questo modo così estremo, pur nel suo classicismo.
Ci sono grosso modo due aspetti di cui tener conto: uno diciamo prospettico che riguarda soprattutto l’uso direi così spudorato del grandangolo per aiutarmi a legare la struttura architettonica alle dimensioni fisiche dell’osservatore, ma dell’osservatore quale io volevo risultasse essere, cioè un bambino piccolo, ed un aspetto più intimo e legato alla mia storia personale, ma che doveva fornire la chiave di tutto il lavoro.
Una chiesa è già grande per chi ha gli occhi a 150-170 cm di altezza, ed ha una certa dimensione delle mani e dei piedi e del corpo, ma diventa veramente immensa per chi è un soldo di cacio di 4, 5, 6 anni ha gli occhi a 60-90 cm di altezza ed ha le mani lunghe così: le mani sono quelle che ci danno maggiormente il senso delle dimensioni prossime, sono le parti del nostro corpo che ci portiamo sempre appresso, che abbiamo sempre sott’occhio, specie noi latini, e che ci danno una specie di unità di misura portatile. Qui si parla di edifici religiosi, la prossima volta che capitate in chiesa con un bambino di 5-6 anni, mettetevi a guardarla dal suo punto di vista fisico, passate per esempio rasente all’altare di S.Rocco da 70 cm di altezza come punto di vista ed usando come misura campione le sue manine.
Vedrete come tutto si dilata a dismisura. Mi ricordo da piccolo il senso di smarrimento che provavo in questi volumi stratosferici. Questo il primo dato generatore dell’inquietudine.
Per il secondo, e più profondo, vado ad una delle più infelici esperienze della mia vita infantile, e quella con più lunghi strascichi: il primo contatto con la religione, cioè il catechismo, cosa da cui allora non si poteva proprio fuggire. Hanno detto che ho fotografato la controriforma, in effetti potrei dire che ho reso visivamente come la controriforma ha influito sulle mie reazioni istintive di bambino prima, e poi per vie traverse (nulla viene mai perduto) sulla percezione di adulto.
Dunque. Il catechismo veniva fatta allora il primo anno delle elementari, quando già c’era l’urto grosso contro il mondo immensamente più forte degli adulti e dei suoi diktat incomprensibili: momento di massima confusione e vulnerabilità.
Il luogo fisico del nostro catechismo era il sotterraneo della chiesa, o meglio direi una catacomba (ritorniamo un momento alla percezione dello spazio del bambino), spazio enorme, freddo, umido, buio, soprattutto buio, con un’unica lampadina sopra la nostra serie di panche disposte in discesa. In questo ambiente già di per sé inquietante si inserivano insegnamenti basati sul metodico instillare sensi di colpa e paura per quasi tutto e il veto sostanziale di usare la propria sensibilità. Quindi il vero dispiegamento del potere.
Essendo stato scottato così profondamente, uno dei risultati è che la mia reazione istintiva è la percezione della violenza che emana da queste strutture, e non dimentichiamo che all’epoca del Barocco la Chiesa era un potere temporale, e che potere temporale! L’Inquisizione che è stata formalmente abolita solo nel 1908 nella nostra penisola, era attivissima, Giordano Bruno è stato bruciato nel 1600, Galileo è morto nel 1642, l’anno in cui è stata fatta la Chiesa di S.Teresa; S.Francesco da Paola è del 1665, la SS Trinità inizi 1600, del 1679 è S.Filippo. Per me la testa sul piatto di S. Giovanni Battista Decollato non è la testa di S. Giovanni Battista, ma è la testa di quelli che sono stati accompagnati al patibolo dalla Confraternita.
Il Barocco inoltre con il suo horror vacui imprigionando l’occhio cerca di non lasciargli spazi all’autonomia creativa, per così dire lo blocca lì, lo incatena al suo carro e se lo porta a spasso.
Tengo a precisare comunque che molte di queste considerazioni le ho fatte a posteriori, perché se si vuole fare un lavoro di grande qualità bisogna lasciar lavorare tranquillo il nostro istinto o se preferite il nostro subconscio: se ci si ingabbia in una griglia predefinita per dimostrare qualcosa, la poesia scappa a gambe levate, ed in definitiva l’unica cosa che mi interessa veramente cercare è proprio la poesia. Come diceva Rilke, che di poesia se ne intendeva ( e lo diceva nei Quaderni di Malte):
“Bisognerebbe aver la forza di attendere: raccogliere in sé per tutta una vita (per tutta una lunga vita, possibilmente) i succhi più dolci; e solo allora, solo alla fine, riusciremmo forse a scrivere non più che dieci righe di poesia. Perché i versi non sono, come tutti ritengono, sentimenti. Di questi, si giunge rapidi ad un precoce possesso. I versi, sono esperienze. Per scriverne anche uno soltanto, occorre aver prima veduto molte città, molti uomini, molte cose. Occorre conoscere a fondo gli animali, sentire il volo degli uccelli; sapere i gesti dei piccoli fiori, quando si schiudono all’alba. Occorre poter ripensare a sentieri dispersi in contrade sconosciute; a incontri inattesi; a partenze a lungo presentite imminenti; a lontani tempi d’infanzia avvolti tutt’ora nel mistero; al padre ed alla madre, che eravamo costretti a ferire, quando ci porgevano una gioia incompresa da noi perché fatta per altri; alle malattie di puerizia, che così stranamente di manifestavano, con tante e sì profonde e gravi metamorfosi; a giorni trascorsi in stanze silenziose e raccolte; a mattini sulla riva del mare; al mare; a tutti gli oceani; a notti di viaggio che scorrevano altissime via, volando sonore con tutte le stelle. E non basta. Occorre poter ricordare molte notti d’amore, sofferte e godute: e l’una, dall’altra, diverse; grida di partorienti; lievi e bianche puerpere che risarcivano in sonno la ferita. Occorre avere assistito moribondi; avere vegliato lunghe ore accanto ai morti, nelle camere ardenti, con le finestre schiuse e i rumori che v’entravano a flutti. E anche ricordare, non basta. Occorre saper dimenticarli i ricordi, quando siano numerosi; possedere la pazienza di attendere che ritornino.
Perché i ricordi, in sé, non sono ancora poesia. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo, gesto; quando non hanno più nome e più non si distinguono dall’essere nostro, solo allora può avvenire che in un attimo rarissimo di grazia dal loro folto prorompa e si levi la prima parola di un verso.”
Roberto Goffi, 2000
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