PER IL “SOLDATO DAGUERRE”
Nell’ambito della produzione fotografica di Roberto Goffi, l’attuale sua mostra torinese, da Giancarlo Salzano – cui si deve il titolo, così felice – comprende una serie di immagini (ingrandimenti di 50×70 centimetri) che risalgono all’inverno del 1974-’75 e alle ultime settimane del servizio militare di leva (prestato dopo aver conseguito la laurea in architettura): proprio alla vigilia del congedo, quando con un gruppi di commilitoni era stato destinato di guardia ad una piccola polveriera isolata, decentrata nel verde boschivo della campagna.
A tutta prima veniva da pensare ad una sorta di bivacco mezzo diroccato, dove polveri e munizioni potevano costituire più che altro il pretesto per castigarvi l’esuberanza di quei giovani, sottoposti insieme al rigore delle consegne e ai camminamenti di ronda, diurni e notturni – qualcosa come 350 chilometri in quindici giorni – alla rigidità dell’inverno evocato dal riflesso di un albero di Natale che compare in un angolo dell’ingrandimento di una delle sue istantanee dove un militare è ripreso di spalle, seduto al tavolo per un pasto frugale, tenendosi addosso il cappotto, con l’elmetto in testa, quasi per scongiurare il freddo che da ogni parte penetrava l’ambiente.
Se negli esterni Goffi era poi tornato alla fida “Nikon”, con una resa d’intonazione naturale, attenta allo spezzone d’un tondino di ferro abbandonato e rugginoso e alle armi alliggiate in una rustica rastrelliera costruita all’aperto, vicino all’autocarro di dotazione, come alla doppia fila dei commilitoni ritratti sui due lati del tavolo in una forte resa prospettica, e ai due soldati che nel momento del riposo pomeridiano quasi si perdono, immobili, sul terreno, o in quella figura stesa controluce sulla branda, di cui si nota l’intreccio della rete metallica, e il materico confronto con il legno delle porte, per giungere al corpo umano allungato, gambe e piedi nudi, le muscolose braccia conserte, il riflesso luminoso che rimbalza sul polso, le dita rivelate, in penombra, dal segno delle unghie d’una mano aperta.
Nella serie degli interni Goffi s’era invece servito di una “Leica” sulla quale era stato montato un obiettivo russo, scadente come ottica, ma col pregio di certe crudezze: soprattutto nel frugare le zone d’ombra di ogni ambiente abitativo: dalla stanza adibita a mensa a quelle in cui ognuno aveva imparato ad isolarsi, steso in branda, e a ripararsi dalle ultime zanzare, cacciandosi sotto le lenzuola, pronte a trasfornarsi in una serie di suggestive presenze plastiche, rigorosamente isolate sul nero degli sfondi, in una loro monumentalità e insieme assumendo il significato e il valore di un sudario. Si ha così anche la percezione materica del tessuto bianco lambito dalla luce, con la figura nascosta che viene a collocarsi tra un ricordo e l’oblio di ‘Soldati’, in cui l’autore ha inteso ricondurre, nel titolo stesso, l’intera serie di queste fotografie.
Goffi sembra muovere, ogni volta, dalla realtà filtrata dai suoi obiettivi nella fitta sequenza delle istantanee scattate in quel luogo e in quel momento, immerse in quella luce e in quello spazio: tutti elementi capaci di confluire e fissarsi nel fotogramma di uno scatto. In verità, afferma Goffi stesso, in un suo scritto di questi ultimi giorni, avrebbe potuto condividere l’affermazione di Mimmo Jodice per il quale “il lavoro vero inizia in camera oscura”, intervenendo naturalmente sulla negativa scelta tra le migliaia che, con un atto apparentemente meccanico aveva fissato su lastre o pellicole. “Per me non basta ancora, aggiungeva, ho bisogno di quasi distruggere alcune caratteristiche dell’immagine fotografica e utilizzare l’immagine ottica per quello che è: un suggerimento, il ricordo di un attimo, una parte del tutto, non il tutto. Una minima parte della realtà, non la realtà di quel momento. Una sezione sottile del tempo, estratta da quel microtomo che è la macchina fotografica con i suoi procedimenti”.
“Allora – aveva aggiunto – faccio i marmi che sono un frammento – supporto di un altro frammento che è il ricordo dell’origine di un monumento-momento. Allora costruisco oggetti in cui frammenti di mobili, macchine, che quindi hanno già una loro vita ed un temoi incorporati, inglobano una sezione sottile del mio tempo fermata col mezzo fotografico, non solo, ma con il più arcaico e definito dei processi fotografici che per proprietà sue è lo specchio invertito, quindi ulteriormente straniato della realtà e talmente delicato che basta un nulla per cancellarlo, come la memoria”.
“… Per il resto, agli specialisti il compito di spiegarli. Come dice Jung: «essendo (l’artista) soprattutto lo strumento del proprio lavoro, è ad esso subordinato e non abbiamo motivo di aspettarci che ce lo interpreti. Egli ha contribuito al meglio di sé stesso dandogli forma; l’interpretazione deve essere lasciata agli altri e al futuro».
Nulla di casuale, dunque, nelle fotografie di Goffi: una riflessione sulle cose che diventa, in maniera dialettica, una riflessione sulla vita.
Non bisogna dimenticare il potenziale architettonico che in Goffi può momentaneamente cedere il passo al fotografo, ma per riprendere il proprio ruolo, o altrimenti ricuperarlo come avviene negli ultimi suoi Dagherrotipi, le lastre in rame o in ottone argentate con impressi i delicati suoi frammenti fotografici. Sono nature morte, o, meglio, grosse schegge d’un vecchi mobile tarlato visto come l’immagine d’una diruta “Cattedrale” e, soprattutto, la fine, soave presenza femminile affidata, come reliquia essenziale d’una singolare personalità, ad un busto o a un tronco, all’ombroso gorgo di un ombelico o fissato nella morbida curva d’un bacino o di un’anca soltanto: figure concrete, in fondo – ma non più che vagheggiate nella loro impalpabilità – che l’Autore inserisce nell’ambito di ricostruite strutture lignee per le quali attinge a tutto un frammentario repertorio di piccoli oggetti d’arredamento, a cominciare da sedie e tavolini, per ricomporli tridimensionalmente col senso vero di un autentico scultore.
Frutto di ricerche spesso sottili, il “dagherrotipo” da Goffi introdotto in formati minimi, illumina l’idea stessa cui ogni volta risponde facendone delle erme o degli obelischi, o delle “Cattedrali”, come le chiama (ed erano due gambe d’un tavolino rotondo). Vi sono i “Cassetti della memoria” con il sottile velo visitato dalla luce in cui è evocato il delicato tratto d’un nudo (da sotto il seno alle cosce) ma anche il doppio mezzo ritratto dell’Autore e di suo padre, nudi, cui resta intimamente legato il senso prezioso d’una continuità o “Somiglianza”.
Sono immagini diafane, capaci però di rendere la poesia di “Un filo di seta verde”, come vuole un’antica poesia cinese, con un loro modo di catturare il tempo alla stessa maniera in cui, forse, tendendo la sua rete al sole, un ragno sa dar la caccia all’insetto che vi incappi.
Qui Roberto evoca e trattiene, come preziosi fantasmi, i corpi giovani e vivi che con la luce stimolano la sua creatività, illuminandone la vita.
Angelo Dragone 1997
PER IL “SOLDATO DAGUERRE”
Gran parte della fotografia, immagine meccanica, immagine ottica, ha una capacità di plusvalore creativo (contenuto artistico) minimo, vedendo la media dei lavori che circolano quasi zero, nella migliore delle ipotesi poco maggiore, nella massa comunque tende pericolosamente a zero. E’ facile, facilissima, realizzabile da tutti, infatti è sempre più considerata l’arte del nostro tempo, insieme al cinema, che è un insieme di fotografie legato dal tempo.
Non incorpora il tempo, ne è una sezione sottile, sottilissima. Vermeer impiegava mesi per fare un quadro, che è un oggetto bidimensionale come la fotografia, mesi in cui il tempo ed il suo pensiero veniva stratificato nelle due dimensioni.
Se si effettuano 5.000 riprese (Mimmo Jodice, per Mediterraneo) per avere 100 immagini valide, significa che ogni 50 scatti –non a caso si chiamano così, con grande gaudio dell’industria fotografica- ne estraggo uno. Non li accumulo in uno solo. Il tempo occorso è perduto per sempre. Al limite il lavoro diventa un fatto statistico. Secondo me questo è il vero problema di fondo della fotografia che aspira ad essere arte. Mimmo Jodice dice che il suo lavoro vero inizia in camera oscura: infatti interviene manualmente sulla negativa scelta (estratta per le sue potenzialità) per aggiungere un plusvalore di manualità, creatività, poesia che lo differenzia. Per me non basta ancora (o semplicemente non sono ai suoi valori di partenza): ho bisogno di quasi distruggere alcune caratteristiche dell’immagine ottica, per lo meno quelle che mi impone l’industria fotografica, od utilizzare l’immagine ottica per quello che è, un suggerimento, un ricordo di un attimo, una parte del tutto, non il tutto. Una minima parte della realtà di quel preciso momento. Una sezione sottile del tempo, estratta da quel microtomo che è in realtà la macchina fotografica insieme al suo procedimento.
Allora faccio i marmi che sono un frammento-supporto di un altro frammento, che è un ricordo dell’origine di un monumento-momento.
Allora costruisco oggetti in cui frammenti di mobili, macchine, che quindi hanno già una loro vita, un tempo incorporato, inglobano una sezione sottile del mio tempo fermata con il processo fotografico, non solo, ma con il più arcaico e definito e conchiuso in sé stesso fra i processi fotografici, il dagherrotipo, che per proprietà sue è lo specchio invertito, quindi ulteriormente straniato della realtà, e talmente delicato che basta un nulla a cancellarli, come per la memoria.
Come utilizzo di un risultato fotografico realizzato esclusivamente con materiali attuali, ormai posso sopportare solo una serie di immagini legate in sequenza, per avere almeno un minimo di tempo modulato con un minimo di accumulazione.
Questa è la bisaccia in cui ripongo i miei pensieri, e che mi porto mentre tento queste strade. Per il resto, agli specialisti il compito di spiegarli. Come dice Jung: “essendo (l’artista) soprattutto lo strumento del proprio lavoro, è ad esso subordinato e non abbiamo motivo di aspettarci che ce lo interpreti. Egli ha contribuito al meglio di sé stesso dandogli forma, l’interpretazione la deve lasciare agli altri ed al futuro.”.
In ogni caso non è affatto detto che si raggiungano risultati poetici. Quando li si raggiunge , è sempre una sorpresa, un dono del Cielo, un concatenarsi di piccoli eventi che inaspettatamente producono, come una cascata di sassolini, ognuno con la propria composizione, individualità e personalità, la frana che devia inaspettatamente il fiume della vita.
P.S. Questo pezzo è stato scritto per fornire un’ulteriore traccia ad Angelo Dragone
che stava scrivendo una presentazione per il catalogo del ‘97; sono quindi notarelle veloci e non sviluppate. Qualche mese prima avevo sentito una conferenza di Mimmo Jodice, da cui le citazioni di prima mano. Il tutto è indicativo di alcuni pilastri che sostengono l’insieme delle mie ossessioni.
Roberto Goffi 1997