Le righe che seguono nascono dal montaggio di una conversazione avvenuta con l’artista Roberto Goffi il 10 luglio 2001. Altri pensieri provengono da un testo scritto da Goffi stesso sul finire degli anni Novanta in occasione della mostra fotografica Rivelazioni Barocche, ma l’occasione dell’incontro risiede altrove, in un’altra visita al suo studio durante la quale, con alcuni amici, ebbi modo di vedere l’opera Crocifissione in Rosa di ritorno da una chiesa in cui era stata esposta per qualche tempo – in fondo, si tratta di un crocifisso, con una Madonna al posto del Cristo – e poco prima che partisse per Roma.
Durante la conversazione e adesso, mentre scrivo, l’installazione di Goffi si trova ancora nelle sale del Palazzo Trevi all’Istituto Nazionale per la Grafica, che ospita la mostra Fotografia a Torino. Di fatto, parliamo in assenza dell’opera, in una stanza ingombra di libri – il registratore è spento. Su un tavolo i testi che – frammentati e impressi su schegge di vetro – Goffi ha piantato sul fondo del crocifisso. Il corpo – racconto a memoria – è appeso allo scheletro di ferro che ripercorre le linee della base in muratura della croce. La pelle, i contorni delle spalle e delle braccia sono date dalla sovrapposizione di sezioni di fotografie, arrangiate come quei grappoli di sonagli cinesi che vibrano al vento e proteggono le case dagli spiriti del male.
Goffi ha scelto immagini e parole violente. Sono citazioni dalla Bibbia e dal Corano in cui si legifera sulla subordinazione delle donne; fotografie di vagine tratte dall’atlante medico e commentate da inaudite descrizioni scientifiche: ‘Imene deflorato e ormai privo di dignità morfologica in donna adusata al coito’. Sospese nel vuoto delimitato dal crocifisso, queste fotografie sono state ricostruite dopo un periodo di attenta selezione. Sarebbe meglio dire ‘composte’, volendosi affidare a quelle teorie che distinguono fra l’operazione di scelta e ricontestualizzazione di opere già esistenti e l’atto del creare, se possibile, dal nulla. Qualunque scelta si sia fatta alla fine si intrattiene un qualche rapporto con il passato, un reticolo di rimandi che drammatizzano l’evento rappresentato dalla Crocifissione in Rosa cui Roberto Goffi accosta la nozione di composizione e di istinto insieme: ‘Di norma mi immagino il lavoro finito. Lo faccio perché è un’esigenza – non che ci siano tanti grandi motivi di fondo’. Poi inizia la ricerca degli elementi che costituiranno il ‘lavoro finito’. Le immagini e i testi presi in considerazione sono moltissimi – più che di testi e di immagini, si tratta di versi: ‘Sono trent’anni che cerco la poesia’ – dice Goffi ad un certo punto. Me la immagino come la poesia di Rilke, in cui il verso è esperienza e ‘per scriverne anche uno soltanto, occorre aver prima veduto molte città, molti uomini, molte cose’. Il dettato di Rilke e l’intento, sin dal 1974, di fare autoanalisi confrontandosi con ‘le brutture del mondo’ confluiscono nel desiderio di rendere la fotografia – di per sé episodica – una narrazione. Anche un quadro di Vermeer, così come una foto, è bidimensionale ‘ma quando ho visto Vermeer ad Amesterdam sono stato delle ore a divincolarlo tutto e lui pure impiegava mesi a dipingerlo. La foto, invece, non incorpora il tempo, ne è una sezione sottilissima.’ In fondo installare le foto in uno spazio significa permettere all’immagine di incorporare il tempo e di raccontare la sua storia. Le narrazioni che si intrecciano nell’opera di Goffi sono molte – c’è una storia dell’immagine, cui si affianca il resoconto del percorso che ha portato l’artista al suo reperimento. ‘Ho scritto la mia tesi intorno al tema del self-help in paesi africani. Allora – era il 1974 – non c’era molto materiale sull’argomento in giro. lo stesso, mi sono documentato e ho cominciato a scoprire tutte le crudeltà che erano successe. A dire il vero, non tutte – solo alcune. Comunque mi sono bastate perché mi rendessi conto che la maggior parte di queste avvenivano contro donne. Prendi lo stupro di Nanchino’ – indica una copia de La Repubblica appoggiata sul tavolo. Più tardi, parlando, leggiamo su un catalogo che Crocifissione in Rosa è stata pensata anche in seguito agli stupri delle guerra in Bosnia. Gli chiedo se ha pensato anche a quelli. ‘No, o forse sì. Sinceramente già bastava Nanchino. Così ho cominciato la mia ricerca. Ho saccheggiato la biblioteca della Fondazione per la Fotografia. Alcune immagini erano tremende, ma sarebbero suonate retoriche dunque le ho riprodotte ma, in seguito, scartate. Ho anche preso molte mani. Le mani sono quelle che ci danno maggiormente il senso delle dimensioni prossime. Sono le parti del nostro corpo che ci portiamo sempre appresso, che abbiamo sempre sott’occhio, specie noi latini. Ci danno una sorta di unità di misura portatile. Poi ho letto I fiori del male, Hikmet’. Da Hikmet legge un verso: le donne sono come il fango e la pioggia. ‘Mi sono dedicato lungamente anche alla costruzione della mia Madonna, quella che ho crocifisso. Il volto della modella doveva essere irriconoscibile, eppure visibilmente femminile. Le spalle tese, come quelle appese ad una croce’. Molte immagini, invece, provengono da libri e cataloghi. ‘Ce ne sono già talmente tante, che sembra strano non dover utilizzare le immagini che già sono pronte per l’uso.’ Lego questa spiegazione ad una delle ultime battute della conversazione. Parlando di libri, dice di rimpiangere moltissimo tutte le pagine che non avrà modo e tempo di leggere. Fatti e ricordi che, tornando a Rilke, diventano ‘sangue, sguardo e gesto’, dunque poesia come nelle fotografie di Roberto Goffi.
Federica Martini 2001