FLOWERS
2019
Questa grande casa di campagna nella quale ho la fortuna di abitare è attorniata da una natura rigogliosa e gentile: qui prospera una grande varietà di fiori spontanei e coltivati, molti ereditati dalla precedente proprietaria, contadina anomala con predilezione per la bellezza dei fiori. Nel corso degli anni ho raccolto immagini di questi effimeri oggetti, sogni visivi, ricordi riaffioranti. Per questa operazione ho utilizzato principalmente un vecchio obiettivo degli anni ’30, che usava mio padre per fotografie di viaggio e di famiglia. Meraviglioso strumento per trasformare un fiore, essere caratterizzato da una grande e materica presenza, in un sogno evocatore, indistinto come quelli che ci accompagnano all’alba prossimi al risveglio, ma pieno di echi e desideri.
Naturalmente il materiale di elezione per questo obiettivo non può che essere una pellicola, nella quasi totalità pellicola piana 10×12; sempre, tranne un caso, riprese effettuate in studio con una illuminazione ridotta all’essenziale ed un fondale costituito da una consunta e macchiata lastra di masonite, anch’essa reperto famigliare, a chiudere il cerchio.
Roberto Goffi
FLOWERS
2019
I am fortunate to live in a country house surrounded by pleasant, exuberant nature: a variety of flowers abound, both wild and cultivated, many inherited from the previous landlady, atypical countrywoman, who loved the beauty of flowers for their own sake. Over the years, I have gathered many images of these ephemeral subjects, visual dreams, recurrent memories.To capture them, I used an old lens, dating from the nineteen-thirties, one that my father used to photograph trips, travels and family. A wonderful instrument for transforming a flower, an organism with a powerful and material presence, into an evocative dream, as indistinct as those that accompany us at dawn, just before we wake, charged with echoes and desires.Of course, this lens demands 4×5 sheet film; except on one occasion, for studio shoots with minimal lighting and a background composed of a worn, stained sheet of hardboard, another family relic, to close the loop.
Roberto Goffi
PARADEISOS
FIORI SENZA PERCHE’
“Si è mai visto un giardino che può essere trasportato in una manica, un frutteto che si può tenere in grembo?”, si domandava l’erudito e poligrafo arabo dell’VIII secolo al- Jāḥiẓ. Se è un libro ciò che rende possibile tutto questo, come intendeva l’autore, le pagine di Roberto Goffi sembrano realizzarlo alla lettera. Eppure, dopo che abbiamo preso in grembo queste pagine di Flowers e cominciato a sfogliarle, un interrogativo più urgente sembra presentarsi ai nostri occhi. Che cosa sono questi fiori? Si tratta davvero di fiori?
Zeami, drammaturgo e supremo teorico giapponese dell’estetica teatrale, nel suo testo fondamentale sul teatro Nō, Kadensho – letteralmente Il libro della trasmissione del fiore – definisce fiore ciò che, frutto della disciplina e dell’esercizio ma anche dono della pura grazia, irrompe improvvisamente sulla scena mentre l’attore sta recitando, generando nello spettatore un incanto e un piacere estetico ineffabili.
La prima sensazione che ci coglie mentre queste immagini scorrono sotto le nostre dita è che non si tratti in alcun caso di oggetti – e come potrebbe d’altronde ridursi a oggetto un fiore, se è esattamente ciò che fiorisce?
Questi fiori sono innanzitutto un evento che accade non davanti a noi, per quanto le loro immagini elegantemente scandite scorrano dinanzi ai nostri occhi, ma piuttosto con noi e forse persino per noi. Un evento che si dispiega in un flusso indistinguibile e al tempo stesso in ritmi precisi, in rapporti tra forme e dimensioni, luci e ombre, materia e memoria a tal punto inevitabili che, mentre sfogliamo queste pagine, e non abbiamo ancora finito, già non riusciamo più a ricordare, come se non avessimo visto questo o quel fiore – la calla, l’euforbia, l’iris, il gladiolo, l’iris d’acqua – ma un unico fiore che mentre appare immediatamente si sottrae, svanendo, e facendo svanire noi stessi in quella memoria ulteriore e più profonda, impredicabile e abissale, che è l’oblio.
Emergendo dal regno dell’ombra, dal fondo buio della coscienza, questi fiori sembrano come il frutto dell’inconscio, delle sue intermittenze luminose e sfuggenti, delle sue fioriture imprevedibili e metamorfiche, di cui anche noi siamo parte.
Sono fiori viventi – è questo, alla lettera, il significato di ikebana – che scorrono tra le nostre mani, impeccabilmente disposti; e mentre i nostri occhi si immergono nell’osservazione di queste forme che trascolorano incessantemente l’una nell’altra, una metamorfosi si produce in noi, come se il frutto della physis, che è divenire e permanente mutazione, non potesse produrre che questa alchimia, come se il suo fiorire non fosse altro che questo, forza che trasmuta e che trasforma.
In questo paradeisos che Roberto Goffi ha creato, o piuttosto che ha lasciato che si creasse, nessun fiore materiale, a dispetto dell’apparenza, fiorisce. Anthos tou nou, fiore dell’intelletto, dice Proclo per nominare il culmine della facoltà più alta che è in noi, che procede al di là della ragione e che ci fa percepire e contemplare le pure essenze negli estremi gradi della trascendenza; e ancora anthos tēs ousias hēmōn, fiore della nostra essenza, o pasēs hēmōn tēs psychēs anthos, fiore dell’anima tutta, per indicare il vertice in cui si unifica in noi ogni facoltà, attraverso cui “siamo innestati […] con le radici dell’al di là” in ciò che sta oltre l’intelletto e l’essere, nell’origine stessa, l’Uno in sé.
Che cosa accade d’altro canto in noi mentre osserviamo un fiore, quando ne sentiamo il suo profumo? Il suo carattere immateriale e intangibile, il suo fiorire per nessuno e senza perché, ci rivela la sua inafferrabilità nel momento stesso in cui ci introduce, attraverso il desiderio, al segreto sensibile del suo piacere. Siamo condotti in uno spazio nuovo, lo spazio che il fiore inaugura con il suo fiorire, e in un altro tempo, che si dischiude per noi attraverso l’incanto della contemplazione.
Mentre contempliamo questi fiori che Roberto Goffi ha scelto per noi, ci accorgiamo che non vogliamo toccarli, nemmeno con il peso del nostro sguardo, come per non incrinare la loro bellezza, la loro fragilità, la loro delicatezza, è una sola cosa con la loro natura effimera e insieme con la loro eternità. La bellezza struggente dell’autunno e di tutto ciò che finisce è proprio questo, in ultima istanza, per l’estetica giapponese, l’esperienza della loro intima impermanenza, che è al tempo stesso esile dissolvimento e fine, come gli stami e i petali di questi fiori, ma anche libertà da ogni attaccamento e fissazione, come il loro movimento e la loro grazia.
Se noi cerchiamo di stringere i fiori che abbiamo appena colti, appassiranno nella nostra mano; ma qui, in questi fiori che non possiamo toccare, è come se, per miracolo, questo non potesse accadere. A poco a poco che il nostro sguardo si perde tra le infinite variazioni di queste foglie, di queste corolle, di questi steli, le loro immagini lentamente si dissolvono, sparendo ai nostri occhi, nell’estasi della dissoluzione. Eppure, in un istante, un’altra meraviglia ci sorprende: essi sono fioriti in noi, innestati per sempre nella perennità del nostro cuore.
Il y a des fleurs partout pour qui veut bien les voir.
Guido Brivio